Ipocondria

Un piccolo esperimento
Per avere una idea di come funziona l’ipocondria facciamo un semplice esperimento. Mentre state leggendo queste righe, portate per una decina di secondi la vostra attenzione sulle sensazioni che provengono dal vostro piede sinistro. E’ molto probabile che percepiate qualcosa, una leggera pressione, una sensazione di caldo o freddo, oppure un formicolio; normali sensazioni provenienti dai recettori sensoriali che potete osservare ed analizzare in modo neutrale.
A questo punto facciamo due riflessioni. La prima è che, prima di porre l’attenzione al vostro piede, tali percezioni erano completamente assenti dal vostro campo di coscienza, come se non esistessero affatto, e hanno cominciato ad esistere soltanto a seguito del direzionamento cosciente della vostra attenzione. La seconda è che, se non siete particolarmente preoccupati delle condizioni di salute del vostro piede sinistro, è molto probabile che non resterete a chiedervi cosa avete sentito, ma ve ne dimenticherete anzi rapidamente per dedicarvi ad attività più interessanti.

Si comincia a porre attenzione
La persona ipocondriaca potrebbe invece, a titolo di esempio, ravvisarvi l’indizio o addirittura la prova di un problema circolatorio, specialmente se già antecedentemente preoccupato da tale possibilità. Potrebbe avere un sussulto di ansia, potrebbe sentire l’esigenza di andare a chiedere a Google se esiste correlazione fra particolari sensazioni al piede e malattie cardiocircolatorie; oppure potrebbe correre a manifestare subito la sua preoccupazione ad un familiare nella speranza di ottenere da altri la rassicurazione che non si tratti di niente di grave. Sul momento potrebbe sentirsi rassicurato, ma in seguito potrebbe sentire l’esigenza di andare a ricontrollare le sensazioni che provengono dal piede in momenti diversi della giornata, al mattino appena sveglio, mentre resta a lungo seduto, oppure la sera dopo una giornata faticosa, in modo da monitorare ciò che sente.

La richiesta di rassicurazione
Potrebbe poi volgersi anche alle sensazioni che provengono dagli arti superiori, fino a sentire il bisogno di chiedere un consulto medico per sapere se davvero c’è qualcosa che non va, perché, anche se continuamente rassicurato da familiari o conoscenti, in fondo questi non sono medici, dunque dubbi sulle loro risposte è lecito averne. Il punto è che anche dopo aver ricevuto una rassicurazione medica, resta sempre possibile mettere in dubbio il responso e sentire il bisogno di tornare a controllare più volte durante il giorno, per poi andare a chiedere un altro consulto, dal momento che anche i medici possono sbagliare; oltre al fatto che resta sempre possibile che egli non sia stato in grado di far comprendere bene al medico il suo sintomo.
Tornando al nostro esperimento iniziale, si può vedere come l’operazione che compie chi soffre di ipocondria è quella di ravvisare segnali andandoli a cercare e ponendoci attenzione, scannerizzando il proprio corpo alla ricerca di segni, rivestendo di significato inquietante i segni trovati e cominciando di nuovo a tenere sempre più sotto osservazione quegli stessi segnali, instaurando un circolo vizioso che lo preoccupa sempre di più. In sostanza ha creato un sintomo ed una preoccupazione dal nulla.

In presenza o in assenza di sintomi reali
Il processo appena descritto è puramente indicativo ed esemplificativo di un processo che, nel caso specifico, ha alla base un meccanismo di amplificazione somatosensoriale, ma esiste una diversa modalità in cui la persona che soffre di Disturbo da Ansia di Malattie (come è stato definito dal DSM V) può intrappolarsi.
E’ possibile infatti che l’ansia del soggetto si attivi quando sente qualcosa, un segnale del corpo; ma è possibile anche che la preoccupazione primaria sia quella della mera possibilità di contrarre una qualche malattia, magari per familiarità negli ascendenti o perché si ha avuto notizia di malattie simili fra i conoscenti, e che i controlli si attivino quindi soltanto in seguito a tale primaria preoccupazione, che quindi persiste anche in assenza di segnali percepibili del corpo. Qui la preoccupazione è che la malattia possa procedere silente, specialmente nel caso di malattie tumorali o cardiocircolatorie, dal che ne consegue ansia, tristezza e abbattimento del tono dell’umore, legati alla pur remota possibilità che ciò possa accadere o star accadendo.

Alcune varianti
A volte l’ipocondria si manifesta esteriormente come una richiesta costante di rassicurazioni da parte di familiari e medici, un parlare sempre delle stesse cose senza averne mai abbastanza. Altre volte invece induce ad un atteggiamento opposto, cioè allontanare ed evitare qualsiasi riferimento al concetto di malattia, fino al timore di sottoporsi ad ogni analisi medica per la paura che ciò possa portare alla luce la terribile verità sul proprio stato di salute. La irrazionalità di questo ultimo comportamento è evidente; nel caso si fosse realmente malati infatti, sarebbe certamente meglio una diagnosi precoce. Anche gli ospedali possono configurarsi come oggetto di evitamento fobico, così come gli articoli e le trasmissioni televisive che parlano di salute e malattia.
Le malattie che inquietano maggiormente sono chiaramente quelle più gravi. A volte la paura è quella di morire, ma in altri casi la paura predominante è piuttosto quella legata allo stato di malato, alla dipendenza e alla sofferenza che ne conseguono.
Può anche accadere che la paura della malattia non si riferisce a sé stessi ma ai propri cari: moglie, marito, figli, genitori, e opera attraverso gli stessi meccanismi: ricerca di sintomi negli altri e controllo esasperato delle loro condizioni di salute.

La dominante ossessiva
Quella ipocondriaca non è una condizione di certezza, ma di logorante e costante dubbio, che richiede rassicurazioni, ricerche, verifiche, controlli.
Quando la componente ossessiva è predominante si instaurano dei veri e propri rituali di controllo che possono essere molto resistenti, come ad esempio palpare continuamente parti del corpo, ascoltare attentamente la peristalsi intestinale, tastare l’addome per trovare conferma alla sensazione di gonfiore o irritazione, prendere nota quotidianamente delle caratteristiche di urina e feci, misurare frequentemente pressione e battito cardiaco, osservare bocca e gola etc.
Si cerca di tenere sotto attenta osservazione ogni segno che potrebbe indicare l’esistenza di uno stato di malattia, e le trascurabili variazioni delle misurazioni e delle osservazioni sono sufficienti a creare uno stato di allarme capace di condizionare tutta la giornata.
Il paradosso è che a causa del timore di malattie inesistenti si finisce per ammalarsi di una vera malattia, l’ipocondria appunto, questa sì concreta e reale, che può avere ripercussioni anche gravi sull’umore e sulla qualità di vita personale e relazionale.

Smettere di controllare
L’ipocondriaco è felice quando ritiene di non aver trovato alcun segno, ma per venire fuori dalla ossessione ipocondriaca il punto non è questo. Il punto è che egli deve smettere del tutto di dedicarsi alla operazione di ricerca dei segnali. La continua ricerca di rassicurazione e verifica attraverso i controlli è in realtà ciò che lo tiene ancorato al disturbo. Il desiderio di essere rassicurato in maniera totale e definitiva sul proprio stato di salute è infatti un desiderio irrealizzabile, perché avere la certezza assoluta di non essere ammalati è di fatto impossibile. Bisogna accettare di essere soggetti alla caducità della condizione del corpo e ad eventi morbosi che si possono presentare in maniera purtroppo imprevedibile. E una volta stabilito un piano di controlli di routine per una sana prevenzione ed eventualmente adottato uno stile di vita più o meno sano, continuare a vivere nella speranza di restare in salute il più a lungo possibile. Una volta ridotta l’attenzione ad ogni impercettibile manifestazione del corpo, sarà molto più probabile che eventuali sintomi reali, se presenti, si imporranno all’attenzione in maniera naturale come segnali che richiedono una giusta considerazione.

 

L’amplificazione dell’ansia ad opera degli algoritmi di internet e dei social

E’ importante notare che l’uso delle ricerche in internet effettuate per ottenere informazioni e rassicurazioni sulla condizione di salute di cui si è preoccupati, oltre a contribuire a mantenere l’attenzione focalizzata sempre sullo stesso argomento, con la conseguenza di aumentarne la percezione di importanza, influisce negativamente sul soggetto anche per il tramite degli algoritmi che raccolgono i dati inerenti le attività che l’utente svolge su internet.
Dal momento che la maggior parte delle attività infatti è in genere monitorata da sistemi automatici che cercano di individuare le aree di interesse dell’utente al fine di proporre notizie, link o messaggi pubblicitari, il risultato sarà che l’utente, sia nella normale navigazione che sui social, sarà esposto in modo sempre più massivo a notizie e messaggi relativi alle malattie o a quelle specifiche condizioni di cui cerca rassicurazione, con l’effetto di una ulteriore amplificazione della percezione di importanza e centralità della malattia, che aumenta sempre di più man mano che egli fa più ricerche e trascorre più tempo nella lettura di quegli argomenti. Il risultato sarà la percezione di un mondo in cui l’oggetto della sua ansia è spaventosamente onnipresente, mentre in realtà è l’effetto delle sue stesse azioni; fattore questo che rappresenta un ulteriore motivo per cui è molto importante interrompere l’attività di ricerca di rassicurazioni attraverso l’uso di internet. Ma in ogni caso tenere bene a mente questo meccanismo: che ciò che viene presentato attraverso i messaggi cui siamo esposti in modo apparentemente casuale, attraverso la proposizione di messaggi pubblicitari, link e notizie, non è affatto casuale o rappresentazione oggettiva di ciò che è importante o frequente in internet, ma è in parte l’effetto della stessa attività di ricerca e consultazione, con un effetto di amplificazione che è assolutamente negativo per un soggetto tendenzialmente ipocondriaco.

Fobie

La fobia è il terrore irrazionale di situazioni, ambienti, animali o oggetti specifici, che possono fungere da innesco per un attacco di panico. A titolo di esempio possono essere citati: insetti, cani e animali di piccola taglia, ragni, serpenti, iniezioni, sangue e ferite, altezze, spazi aperti o affollati, spazi chiusi, autostrade, aerei, navi, velocità, gallerie, viadotti, mare profondo, buio, tuoni e lampi, ospedali, sporco e microbi etc. L’elenco potrebbe essere davvero lungo in quanto moltissimi elementi o situazioni possono essere oggetto di una fobia, anche se talune si riscontrano con maggiore frequenza.
Vanno poi aggiunte le fobie che riguardano non oggetti o specifiche situazioni ambientali, quanto avvenimenti che potrebbero capitare al proprio corpo o alla propria mente, come paura di vomitare, soffocare, avere un infarto o un ictus, perdere il controllo degli sfinteri, tremare, impazzire, svenire, ammalarsi etc.
Altre fobie infine hanno una componente più relazionale, come la paura di essere sgridati, di parlare in pubblico, di avere relazioni sociali, di fare esami, di essere derisi, di deludere etc., le quali più che un attacco di panico vero e proprio inducono di solito uno stato di forte ansia accanto ai consueti comportamenti di evitamento.
L’evitamento delle situazioni temute è infatti la difesa principale da ogni forma di fobia con la conseguenza che, mentre per alcune fobie la vita può continuare tranquillamente semplicemente evitando di entraci in contatto – ad esempio la paura di andare sott’acqua, la paura dei rospi, in una certa misura anche la paura di volare – in altri casi la fobia impatta fortemente la qualità di vita quotidiana investendo aspetti fondamentali come la socializzazione, lo studio o il lavoro: immaginiamo ad esempio la paura di guidare per un camionista, la paura di volare per un’assistente di volo, la paura degli esami per uno studente, la paura di mangiare fuori casa, tutte paure che possono essersi presentate all’improvviso dopo un periodo della vita condotto invece in assenza di tali problemi.
Anche se il termine fobia viene utilizzato per innumerevoli condizioni in cui sono presenti gli elementi della forte paura, ansia e preoccupazione, che tipicamente conducono all’evitamento, esse possono differenziarsi notevolmente per quanto riguarda gli aspetti del funzionamento psicologico che ne è alla base. E’ importante perciò riconoscere tali differenze nel sistema percettivo-reattivo che mantiene sia la fobia che il suo tentativo di soluzione, per poter portare al suo superamento.
La paura degli insetti, ad esempio è strutturalmente diversa nel suo funzionamento psicologico dalla paura di precipitare in un incidente aereo. Nel primo caso si tratta di un evento esterno che può irrazionalmente provocare un attacco di panico in assenza di un reale pericolo; nel secondo caso invece la persona avverte il pericolo di morire per un evento le cui possibilità concrete di realizzarsi sono infinitesimali, ma che egli vive invece emotivamente come una quasi certezza. Alcune fobie, come la paura delle gallerie, possono essere tenute sotto controllo solo con l’evitamento mentre altre, come la paura di soffocare mangiando, pur inducendo anch’esse alcuni evitamenti come ad esempio, nel caso specifico, evitare di mangiare fuori casa, conducono però anche ad adottare necessari meccanismi di controllo come il masticare a lungo e lentamente, fare bocconi piccoli, impiegare molto tempo per mangiare, tutti rituali che occorrerà disattivare per poter condurre alla soluzione del problema.
Per questo è importante una analisi precisa e personalizzata della fobia, di come essa agisce, a quali comportamenti di controllo dell’ansia ha condotto, e se e quanto si sono strutturati rituali ossessivi in conseguenza della fobia stessa.
L’elemento fobico può essersi strutturato sia in presenza come anche in assenza di esperienze traumatiche pregresse. A volte l’oggetto della fobia può aver anche avuto una origine simbolica e avere pertanto un significato, ma la conoscenza dell’eventuale significato simbolico della fobia a livello razionale non conduce automaticamente al superamento della fobia stessa proprio per i motivi suddetti, e cioè l’utilizzo e la stabilizzazione nel tempo dei meccanismi di evitamento e di controllo messi in atto dal paziente, che pertanto contribuisce inconsapevolmente a mantenerla attiva.

Vomiting

Un giochetto che all’inizio sembra un trucco intelligente per non aumentare di peso si rivela ben presto una delle peggiori trappole per la salute del corpo e della mente. Nel tempo tende a diventare uno sfogo per ogni frustrazione; una triste consolazione, l’unico vero piacere solitario ed intenso da compiere sempre di nascosto

Il rifiuto del cibo

Seguire una corretta alimentazione è una pratica che contribuisce a mantenere salute e benessere, raccomandata per ridurre il rischio di malattie e migliorare la forma estetica del corpo, per cui la capacità di non cedere incondizionatamente al piacere del cibo è generalmente considerata una virtù.
Ma a volte la riduzione e il controllo eccessivo della propria alimentazione conducono ad esiti patologici, dapprima da un punto di vista solo psicologico, e in seguito anche da un punto di vista medico, fino a rappresentare, nei casi più gravi, un serio pericolo di vita che rende inevitabile l’ospedalizzazione.
Le adolescenti e giovani donne in particolare sono le più esposte al rischio di cadere nella pericolosissima spirale innescata dal rifiuto del cibo, che può portare, se non fermata in tempo, alla vera e propria anoressia nervosa. Ma qual’è l’obiettivo che si vuole raggiungere, a cosa serve, quale vantaggio porta la ricerca di una eccessiva magrezza e come mai diventa così tenace?

Diversamente da altre problematiche psicologiche, qui tutto sembra nascere da un atto volontario: la deliberata decisione di non mangiare, perdere peso, resistere, controllare.
Nel momento in cui si comincia a ridurre l’apporto calorico per dimagrire, nessuno mai penserebbe di cadere nell’anoressia. Eppure tante volte ci si finisce; intrappolate, rinchiuse, sfinite dalla lotta tenace ed estrema contro il cibo. Una lotta quotidiana che si contorna di paure, rituali, conteggi, evitamenti, controlli, inquietudini, scontri, che finiscono per caratterizzare ogni giornata. Il cibo diventa una ossessione. Da un atteggiamento iniziale di controllo volontario della propria alimentazione si arriva ad essere sempre più soggiogati da quello stesso atteggiamento volontario che, alimentando un insieme di convinzioni, percezioni e paure, diventa un tiranno feroce che detta le sue leggi: mangiare è male, aumentare di pochi grammi è spaventoso, il piacere del cibo è vergogna, la forma del proprio corpo è ripugnante. E accade così che, per non sentire le spiacevoli sensazioni interiori e gli intollerabili sensi di colpa, si fa ricorso ad un ulteriore incremento della propria forza di volontà per sconfiggere l’onnipresente desiderio di mangiare, alimentando un circolo vizioso pericolosissimo che rafforza sempre più quella stessa volontà che tenderà a diventare cieca e distruttiva. Se, nelle fasi iniziali, il senso di fame è il nemico da sconfiggere per mantenere sotto controllo la propria alimentazione, è chiaro che, aumentando la capacità di controllo e quindi riducendo l’alimentazione, anche il nemico – il desiderio di cibo – essendo continuamente frustrato diventa proporzionalmente più forte e spaventoso, inducendo la necessità di ricorrere ad una forza di volontà ancora maggiore per contrastarlo, procedendo così verso una lotta disperata e sfiancante.
La forza di volontà, il nostro più prezioso alleato per guidarci nella vita e raggiungere traguardi si è completamente travisata, dirigendosi spietatamente contro il corpo ed il suo legittimo bisogno di nutrirsi.
Non meraviglia perciò scoprire che le anoressiche manifestano una forte opposizione nei confronti dei tentativi di guarigione, proprio perché la volontà di non mangiare si è via via rinforzata fino ad assumere l’aspetto di una legge che non può più essere messa in discussione, a causa di quelle che vengono percepite come le terribili conseguenze di un eventuale cedimento.

Per comprendere meglio questo meccanismo si può ricorrere ad una metafora. E’ come se nel tempo si fosse costruita una diga fatta di forza di volontà, per arginare il senso di fame rappresentato dall’acqua che si vuole controllare. Man mano che la costruzione della diga cresce, parallelamente aumenta la quantità di acqua che viene intrappolata e che si accumula sempre di più. Nel momento in cui si dovesse pensare all’ipotesi di smantellare la diga, la conseguenza che viene percepita è quella di una inondazione catastrofica che spazzerebbe via qualsiasi tentativo di controllo, lasciando la paziente nella sensazione terrificante di perdere qualsiasi potere ed esserne travolta.
Nei comportamenti anoressici non ci troviamo di fronte ad una condizione in cui la volontà è soggiogata, come in altri tipi di problemi psicologici in cui accade che si viene sopraffatti dalla intensità di emozioni o comportamenti indesiderati, contro cui ci sentiamo impotenti. Qui il desiderio di non mangiare, per essere realizzato, fa ricorso proprio alla forza di volontà, la quale viene continuamente nutrita e rafforzata dalle soddisfazioni ottenute attraverso i successi nel riuscire a perdere peso. Per cui più si perde peso più aumenta la sensazione di forza e di dominio sul corpo e i suoi bisogni. Più la volontà di non mangiare cresce e si rafforza, più vengono vissute come intollerabili le tentazioni del cibo, gli sgarri, le debolezze. E anche quando, ormai sprofondati nella sofferenza e nel disagio, si riconosce di avere bisogno di aiuto, la volontà si oppone automaticamente e strenuamente ad ogni tentativo di alimentazione imposto da altri.
Per la paziente, uscire dal comportamento anoressico è paradossalmente una sconfitta, un piano fallito, un cedimento della propria volontà, un segno di debolezza dell’io.
Solo quando si comincerà a percepire come un successo il riuscire a resistere alla tentazione dell’astinenza, allora si potrà procedere verso la guarigione.

Anche se fortunatamente non sempre il sistema percettivo-reattivo dell’anoressica conduce alle estreme conseguenze del rischio di vita, anche nelle forme meno gravi i meccanismi di base sono gli stessi. La volontà di soggiogare il corpo, i suoi bisogni, le sue emozioni e i suoi desideri conduce ad un atteggiamento che si potrebbe definire ascetico di lotta della forza di volontà contro il corpo sensiente, quel corpo che sperimenta sensazioni, che sente piacere o che prova dolore.
A prescindere dal motivo cosciente per cui si è deciso di limitare l’assunzione di cibo, ciò che si scopre gradualmente e che inebria è la sensazione di purezza, di forza, di sicurezza, di potenza nel contrastare non solo il senso di fame, ma anche le altre emozioni e i bisogni del corpo. E se le cose nella vita vanno male, se ci sono sofferenze, insicurezze, ansie o inquietudini, si scopre di poter trovare rifugio e protezione nella capacità di astinenza dal cibo, principale ed a volte unica risorsa indiscutibile che si pensa di possedere a dimostrazione del proprio valore.

Il corpo è centrale in tutta la problematica dell’anoressica: il modo in cui lo si percepisce, come lo si vive, quello che il corpo fa sentire, quello che il corpo esprime. Il corpo è qualcosa che bisogna far tacere e ridurre ai minimi termini. Perché, se il corpo è sano e nutrito, sente emozioni e sensazioni, piacere e dolore, e questo viene vissuto come intollerabile.
A volte la sensazione di potenza e forza che proviene dalla vittoria sulla fame è una scoperta che avviene per caso, magari in seguito ad un percorso di dieta, ma che poi non si riesce più ad abbandonare nel momento in cui comincia ad essere vissuta come la propria arma segreta, la tecnica efficace per tenere a bada ogni emozione negativa ma anche per tenersi al riparo dai rischi delle destabilizzanti sensazioni piacevoli. La volontà di non mangiare diventa l’armatura che può proteggere da ogni dolore e delusione, specialmente in ambito affettivo, relazionale e sessuale. Si desidera in qualche modo restare puri, immacolati, non corrotti. Ciò che si deve proteggere è la fragilità dell’anima, vissuta come separata dai bisogni del corpo, che è invece in realtà il tramite naturale imprescindibile per fare esperienza di emozioni, sensazioni e desideri.

Ci possono essere motivi occasionali e più superficiali che favoriscono l’ingresso nell’atteggiamento anoressico, come può essere ad esempio l’imitazione di modelli femminili di successo, l’inizio di una dieta necessaria per perdere peso superfluo, il confronto con la propria madre a sua volta molto attenta all’alimentazione, il senso di insicurezza nel rapporto con i pari; ma ce ne possono essere anche altri più profondi, come l’esistenza di vissuti emotivi difficili da affrontare e che hanno radici nella storia relazionale della paziente e nella rete dei suoi rapporti familiari significativi; ad esempio la sensazione di non essere amate ed accolte, frustrazioni ripetute, senso di solitudine e di incomprensione continuative, fino a vissuti di maltrattamenti, traumi o veri e propri abusi. Ma in ogni caso, ciò che alimenta la spirale perversa resta sempre la sensazione di forza, potenza e protezione che deriva dal riuscire a soggiogare i bisogni e le emozioni del corpo.

L’altro elemento decisamente centrale in tutte le problematiche anoressiche e che contribuisce a rendere particolarmente complesso il lavoro terapeutico è l’alterazione dell’immagine corporea, che appare essere una conseguenza del disturbo stesso. La forma del corpo non viene più percepita in modo corretto, ma viene distorta attraverso lenti deformanti che ne alterano sempre più i contorni man mano che si progredisce nel disturbo.
E’ per questi motivi che gli interventi esclusivamente medici di alimentazione forzata in genere falliscono. La paziente vive il periodo di ospedalizzazione come una violenza ed una forzatura al suo sentire, che non cambia né la dispercezione dell’immagine corporea, né i vissuti interiori dolorosi da cui ci si difende con la corazza anoressica. L’apporto della psicoterapia è per questo sempre necessaria.

Va tenuto in debito conto che nelle terapia delle giovani anoressiche è di primaria importanza la relazione con il/la terapeuta. La paziente ha bisogno di sentire che può fidarsi della sua guida, perché per lei si tratterà di aderire al progetto di intraprendere una strada che percepisce come molto pericolosa, ma che è necessario percorrere per poter fare gradualmente esperienza del fatto che la sua vita sarà migliore e più libera senza la corazza e che lei potrà imparare a fronteggiare le emozioni sgradevoli e gestire quelle piacevoli senza avere più bisogno di una armatura così pesante e ingombrante come l’armatura anoressica, che fondamentalmente è una prigione che mantiene lontani dalla vita reale fatta di emozioni, sentimenti e desideri.
Solo quando, infine, la necessità di ricorrere a tale corazza sarà meno pressante, anche la dispercezione dell’immagine corporea allenterà la sua presa e l’immagine del proprio corpo potrà ritrovare gradualmente la giusta dimensione, favorendo così un senso di maggiore serenità ed integrazione.

Le problematiche che rientrano dei Disturbi del Comportamento Alimentare, allorquando sussiste una marcata componente di tipo anoressico, sono in generale complesse e possono manifestarsi in diverse varianti, accompagnandosi anche a fenomeni accessori come abbuffate, condotte di eliminazione, eccessivo esercizio fisico, comportamenti autolesionistici.
Sarà per questo sempre essenziale capire il processo disfunzionale nella sua interezza e comprendere a fondo i vissuti individuali, al fine di seguire un percorso personalizzato che si adatti alla specifica situazione.
E’ inoltre molto importante per le pazienti e per i familiari, al fine di una prognosi positiva, che vengano individuati quanto prima i segnali che evidenziano un sistematico rifiuto e lotta con il cibo, in modo da ricorrere ad un aiuto specialistico quando la situazione non si è ancora cronicizzata e poter quindi intervenire prima dell’instaurarsi delle spirali perverse di cui si è parlato.

Problemi dell’ambito sessuale

Quando si ravvisano disfunzioni sessuali va sempre esclusa la presenza di cause organiche o farmacologiche, che possono alterare il processo nelle sue diverse fasi: desiderio, eccitazione ed orgasmo.

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Il comportamento sessuale è un istinto primario dei mammiferi, legato alla riproduzione e alla conservazione della specie. Negli esseri umani la sessualità istintuale si riveste di elementi psicologici, sociali e culturali capaci di influire enormemente sul suo funzionamento e sulle sue modalità espressive. La sessualità umana realizza infatti bisogni e tende ad obiettivi che si discostano anche radicalmente dalla funzione riproduttiva. Ricerca di intimità, appartenenza, sicurezza, completezza, accettazione, piacere, autostima, potenza, gioia, integrazione sono tutti elementi psicologici dalle alte implicazioni emotive che possono innescare il comportamento motivazionale, così come essere alla base di notevoli frustrazioni in conseguenza di eventuali disfunzioni o difficoltà.
Le credenze culturali o familiari acquisite, il rapporto con la propria fisicità, l’immagine del proprio valore personale, la sensibilità al giudizio, la capacità di svelarsi, il livello energetico, lo stress, la relazione con il partner sono tutte dimensioni psicologiche capaci di influire sulla espressione del comportamento sessuale.

Difficoltà possono presentarsi già nella fase della ricerca, quando giovani in età riproduttiva mostrano difficoltà nell’approccio, nella manifestazione o nella risposta a situazioni che potrebbero condurre ad un comportamento sessuale. Il timore del giudizio, la sensazione di non essere all’altezza, la paura del rifiuto o una dismorfofobia possono ostacolare fino a bloccare del tutto il tentativo di approccio erotico.
Ma il motivo per cui generalmente si cerca aiuto riguarda i problemi che si manifestano nella fase di eccitazione: assenza di attivazione del piacere nella donna, difficoltà di erezione o eiaculazione precoce nel maschio. La difficoltà a sintonizzarsi con il proprio corpo, a lasciarsi andare, a far sì che siano i corpi a parlarsi, deattivando il controllo volontario, è ciò che tipicamente e in senso generale causa i problemi, i quali poi tendono a persistere alimentati dall’ansia della prestazione. Il sesso perde la sua qualità di linguaggio libero e spontaneo dei corpi, per diventare attività da controllare per raggiungere una performace. Ciò che dovrebbe essere la ricerca di un contatto e di un momento di gioia e piacere diventa un impegno oneroso, dal quale ci si difende evitando, con la conseguenza di causare quasi inevitabilmente delle ripercussioni negative all’interno della dinamica affettiva della coppia. Litigi che aumentano, incomprensioni, distanze; il tutto causato dalla difficoltà di uno o entrambi i membri della coppia a condividere il gioco istintuale e piacevole del sesso.

Ma può capitare anche il contrario, che sia proprio l’assenza di una sana comunicazione e complementarietà all’interno della coppia ad avere ripercussioni sul piano sessuale. Quando uno dei membri della coppia non si sente stimato e apprezzato, quando si manifestano lotte di potere più o meno velate, quando uno dei due non accetta il ruolo in cui l’altro vuole relegarlo sia sul piano relazionale che sessuale, possono insorgere problemi nella sfera sessuale: assenza di piacere, difficoltà di erezione, ansia da prestazione, evitamento.
Quello sessuale è un gioco delicato che richiede che le componenti biologiche, relazionali e psicologiche siano sufficientemente in armonia. Anche eccessivo stress, preoccupazioni di lavoro, quotidianità troppo schiacciata sui doveri, una routine monotona, uno stato depressivo temporaneo sono condizioni che possono interferire sia con la fase del desiderio che con quella della eccitazione.
Scopo della terapia dei problemi sessuali è individuare e risolvere gli ostacoli intrapsichici, comportamentali o relazionali che mantengono e alimentano il problema, per arrivare a riscoprire il comportamento sessuale quale modalità di comunicazione corporea e di intenso scambio emotivo che mantiene, integra e arricchisce il rapporto.

Difficoltà in ambito lavorativo

Non ci si sente a proprio agio al lavoro, non ci si sente valorizzati nonostante si fa del proprio meglio. O non si riesce ad imporsi in un ambiente competitivo e si lascia troppo spazio agli altri. Oppure un capufficio, un collega, un direttore sono eccessivamente giudicanti e ci fanno sentire inadeguati e stupidi. Non si riesce a reclamare i propri diritti; si pensa continuamente agli episodi lavorativi; si cova rabbia e frustrazione che spesso si porta a anche a casa