Fobie

La fobia è il terrore irrazionale di situazioni, ambienti, animali o oggetti specifici, che possono fungere da innesco per un attacco di panico. A titolo di esempio possono essere citati: insetti, cani e animali di piccola taglia, ragni, serpenti, iniezioni, sangue e ferite, altezze, spazi aperti o affollati, spazi chiusi, autostrade, aerei, navi, velocità, gallerie, viadotti, mare profondo, buio, tuoni e lampi, ospedali, sporco e microbi etc. L’elenco potrebbe essere davvero lungo in quanto moltissimi elementi o situazioni possono essere oggetto di una fobia, anche se talune si riscontrano con maggiore frequenza.
Vanno poi aggiunte le fobie che riguardano non oggetti o specifiche situazioni ambientali, quanto avvenimenti che potrebbero capitare al proprio corpo o alla propria mente, come paura di vomitare, soffocare, avere un infarto o un ictus, perdere il controllo degli sfinteri, tremare, impazzire, svenire, ammalarsi etc.
Altre fobie infine hanno una componente più relazionale, come la paura di essere sgridati, di parlare in pubblico, di avere relazioni sociali, di fare esami, di essere derisi, di deludere etc., le quali più che un attacco di panico vero e proprio inducono di solito uno stato di forte ansia accanto ai consueti comportamenti di evitamento.
L’evitamento delle situazioni temute è infatti la difesa principale da ogni forma di fobia con la conseguenza che, mentre per alcune fobie la vita può continuare tranquillamente semplicemente evitando di entraci in contatto – ad esempio la paura di andare sott’acqua, la paura dei rospi, in una certa misura anche la paura di volare – in altri casi la fobia impatta fortemente la qualità di vita quotidiana investendo aspetti fondamentali come la socializzazione, lo studio o il lavoro: immaginiamo ad esempio la paura di guidare per un camionista, la paura di volare per un’assistente di volo, la paura degli esami per uno studente, la paura di mangiare fuori casa, tutte paure che possono essersi presentate all’improvviso dopo un periodo della vita condotto invece in assenza di tali problemi.
Anche se il termine fobia viene utilizzato per innumerevoli condizioni in cui sono presenti gli elementi della forte paura, ansia e preoccupazione, che tipicamente conducono all’evitamento, esse possono differenziarsi notevolmente per quanto riguarda gli aspetti del funzionamento psicologico che ne è alla base. E’ importante perciò riconoscere tali differenze nel sistema percettivo-reattivo che mantiene sia la fobia che il suo tentativo di soluzione, per poter portare al suo superamento.
La paura degli insetti, ad esempio è strutturalmente diversa nel suo funzionamento psicologico dalla paura di precipitare in un incidente aereo. Nel primo caso si tratta di un evento esterno che può irrazionalmente provocare un attacco di panico in assenza di un reale pericolo; nel secondo caso invece la persona avverte il pericolo di morire per un evento le cui possibilità concrete di realizzarsi sono infinitesimali, ma che egli vive invece emotivamente come una quasi certezza. Alcune fobie, come la paura delle gallerie, possono essere tenute sotto controllo solo con l’evitamento mentre altre, come la paura di soffocare mangiando, pur inducendo anch’esse alcuni evitamenti come ad esempio, nel caso specifico, evitare di mangiare fuori casa, conducono però anche ad adottare necessari meccanismi di controllo come il masticare a lungo e lentamente, fare bocconi piccoli, impiegare molto tempo per mangiare, tutti rituali che occorrerà disattivare per poter condurre alla soluzione del problema.
Per questo è importante una analisi precisa e personalizzata della fobia, di come essa agisce, a quali comportamenti di controllo dell’ansia ha condotto, e se e quanto si sono strutturati rituali ossessivi in conseguenza della fobia stessa.
L’elemento fobico può essersi strutturato sia in presenza come anche in assenza di esperienze traumatiche pregresse. A volte l’oggetto della fobia può aver anche avuto una origine simbolica e avere pertanto un significato, ma la conoscenza dell’eventuale significato simbolico della fobia a livello razionale non conduce automaticamente al superamento della fobia stessa proprio per i motivi suddetti, e cioè l’utilizzo e la stabilizzazione nel tempo dei meccanismi di evitamento e di controllo messi in atto dal paziente, che pertanto contribuisce inconsapevolmente a mantenerla attiva.

Vomiting

Un giochetto che all’inizio sembra un trucco intelligente per non aumentare di peso si rivela ben presto una delle peggiori trappole per la salute del corpo e della mente. Nel tempo tende a diventare uno sfogo per ogni frustrazione; una triste consolazione, l’unico vero piacere solitario ed intenso da compiere sempre di nascosto

Problemi di studio

L’attività di studiare ha bisogno della capacità di mantenere la mente concentrata su un argomento, comprendere i concetti e le informazioni, immagazzinarli in memoria tramite la ripetizione e saperli rievocare durante l’interrogazione o la prova di esame. Le interferenze ed i motivi che possono rallentare o addirittura bloccare del tutto questo processo possono essere molteplici ed agire in fasi diverse, per cui le soluzioni saranno efficaci se calibrate sulla comprensione del problema specifico.

Anche ciò che appare come semplice demotivazione o svogliatezza può nascondere ansia o altri problemi emotivi che sarà necessario individuare e riconoscere. La difficoltà a confrontarsi con la frustrazione dovuta allo sforzo di restare concentrati per ore, la tendenza della mente a divagare e distrarsi, l’interferenza di stati emotivi dovuti a situazioni familiari o sentimentali, la percezione di essere in competizione con gli altri studenti, la sensazione di non essere all’altezza, lo smarrimento dovuto alla convinzione di non avere il tempo necessario, la capacità di rinunciare o ridurre il tempo per altre attività piacevoli, l’incapacità di disconnettersi dai rapporti sociali digitali, sono tutti elementi che possono interferire con l’attività dello studiare vero e proprio, cioè stare seduti e concentrati il tempo necessario ed in modo produttivo. Ansie di vario genere possono distrarre e rendere infruttuoso lo studio, o addirittura portare giorno dopo giorno a volgersi verso altre attività e rinviare.

La motivazione a studiare viene alimentata anche dai successi che si ottengono, così come la concentrazione è una attività che diventa più facile attraverso la pratica, per cui rinviare continuamente senza risolvere i problemi di base non farà che peggiorare la situazione. Laddove invece riuscire ad ottenere i primi successi, sia come tempi di studio che come risultati effettivi, aumenta il senso di autoefficacia ed autostima, innescando un circuito positivo.

Ci sono poi dei blocchi che derivano da meccanismi completamente diversi e che si presentano paradossalmente nella forma di uno studio che diventa eccessivo. Nel caso di uno studente universitario, questo può indurre al rinviare continuamente gli esami per la sensazione di non essere mai sufficientemente preparati, mentre, in uno studente liceale, la stessa ansia farà sì che lo studente passi intere giornate ed anche nottate a studiare continuamente, rinunciando o penalizzando troppo altre aree fondamentali, come ad esempio le attività di socializzazione. La sensazione di valere qualcosa solo se si raggiunge il massimo, il terrore del giudizio negativo, la paura di deludere gli altri o sé stessi, la sensazione di non sapere mai abbastanza o addirittura di non sapere nulla, la previsione nefasta di ritrovarsi in sede di interrogazione con la mente vuota, possono portare ad un eccesso di studio che diventa un circolo vizioso dal quale lo studente non riesce ad uscire e che, specie nel caso del percorso universitario, porta al paradosso di essere super-preparati e rinviare sempre gli esami, a volte per anni. Qui agiscono tipicamente meccanismi ansiosi o ossessivi che confondono la mente e fanno perdere la lucidità di guardare al percorso universitario secondo le sue corrette coordinate, nonché di giudicare la propria preparazione in modo oggettivo.

Anche ansie inquadrabili come eccessiva timidezza o fobia sociale possono interferire con i percorsi di studio, laddove ad esempio si riesce bene nelle prove scritte, ma si vivono molto male le prove orali, essendo terrorizzati dal pericolo derivante dal giudizio diretto del professore e dalla fantasia di essere derisi o umiliati in pubblico.

Non bisogna necessariamente laurearsi, si possono ovviamente scegliere consapevolmente altri percorsi di vita e lavorativi. Ma se il proprio desiderio è quello di procedere con lo studio, prima di rinunciare sentendosi incapaci è bene cercare una soluzione. La capacità di apprendere qualcosa di nuovo in modo produttivo e non superficiale è in ogni caso una delle abilità di base che un giovane dovrebbe padroneggiare in un mondo che cambia velocemente, perché la necessità di studiare ed imparare potrà presentarsi in ogni momento della vita.

La capacità di tenere la mente concentrata su un argomento, comprendere, imparare, ricordare, affrontare un esame, sono infatti attività formative fondamentali, a prescindere da come e quando concretamente si utilizzeranno in futuro.

Problemi genitori-figli

La famiglia è una comunità ristretta in cui il comportamento di ognuno ha effetti sul comportamento degli altri e influenza il funzionamento dell’intero sistema. Il clima familiare potrebbe essere definito come la risultante degli schemi prevalenti di azioni e conseguenti reazioni che si instaurano tra i membri. Ci sono famiglie silenziose e famiglie loquaci, famiglie conflittuali e famiglie amorevoli, famiglie che condividono e famiglie più individualiste, famiglie seriose e famiglie più giocose etc.
La responsabilità maggiore del clima familiare appartiene ai genitori, che attraverso la trasmissioni di valori e la funzione di esempio implicito, hanno una fondamentale funzione di formazione per i figli. Ma anche l’emergere delle caratteristiche di personalità proprie dei figli può essere responsabile di effetti importanti sul funzionamento dell’intera famiglia, specialmente quando i genitori non trovano il modo di assorbire, gestire o adattarsi a tali caratteristiche.
Nel sistema familiare l’alterazione di una variabile comportamentale o comunicativa di uno dei membri può cambiare l’intero sistema, sia in senso migliorativo che peggiorativo.
La famiglia quindi è un sistema complesso in cui l’insieme di aspettative, bisogni, desideri, credenze, stato emotivo, capacità di ognuno impatta sugli altri, in un gioco intricato di azioni e reazioni sia interiori che esteriori. Il risultato sarà una famiglia funzionale quando i bisogni dei figli sono adeguatamente soddisfatti in termini di protezione, affetto, stabilità, comprensione.
La famiglia disfunzionale è quella in cui risulta ostacolato o almeno non favorito il diritto dei figli ad avere una educazione, a crescere e svilupparsi secondo le proprie possibilità ed inclinazioni e sviluppare un assetto emotivo tale che li faccia sentire adeguati nel rapporto con sé stessi e con gli altri.

E’ bene chiarire che così come non esiste la famiglia perfetta, non esiste neppure uno stile educativo che possa essere ritenuto di per sé migliore o peggiore di un altro, sempre che vengano garantiti i bisogni fondamentali. Uno stile genitoriale autoritario non necessariamente produce risultati più negativi rispetto ad uno stile democratico. Potrebbe accadere ad esempio che un genitore autoritario e severo sia anche capace di amministrare la giustizia, sia coerente e seriamente interessato alla educazione del figlio volendo trasmettergli principi e valori, laddove magari un genitore democratico finisca per cedere troppo facilmente alle richieste del figlio nascondendo in realtà, dietro l’atteggiamento del porsi dalla sua parte, la difficoltà ad assolvere con responsabilità ed impegno la sua funzione di guida, cercando in realtà di evitare i conflitti.
In entrambi i casi ciò che farà la differenza sarà il risultato della interazione fra loro di tutte le altre variabili presenti nella relazione. Famiglie diverse e stili educativi diversi producono certamente risultati diversi nel carattere e nel comportamento dei figli, ma bisogna evitare eccessive semplificazioni che inducono a trovare nessi lineari di causa-effetto fra stili educativi adottati e risultati ottenuti.

Bisogna inoltre considerare due ulteriori fattori che influenzano l’età evolutiva. Il primo è certamente il temperamento specifico del figlio, con le sue caratteristiche innate, le sue capacità e le sue attitudini, capaci di influire notevolmente sul suo sviluppo.
Il secondo è l’influenza dei fattori esterni alla famiglia, che cominciano ad essere molto significativi nella età della adolescenza e prima giovinezza.
Ed è proprio questo secondo fattore a creare spesso sconcerto, frustrazione ed anche confusione nei genitori, dal momento che non è facile avere un controllo sugli stimoli, educativi o diseducativi, a cui facilmente possono essere esposti i ragazzi addirittura prima della età adolescenziale.
La decisione fra cosa vietare e cosa permettere, quale atteggiamento utilizzare, quale critica muovere e su quali basi, cosa ritenere giusto o sbagliato diventa un problema di non facile soluzione.
Negli ultimi 50 anni i cambiamenti sociali e culturali sono stati particolarmente rapidi, con in aggiunta un processo di accelerazione che, continuando ad aumentare, crea nuove sfide educative e nuovi quesiti in un arco temporale sempre più breve, tanto che il mondo che si trova davanti un ragazzo 14enne di oggi è, per alcune dimensioni sociali, diverso da quello cui sarebbe stato esposto dieci o solo 5 anni fa. In assenza di precisi riferimenti valoriali stabili e sostenuti dalla intera società anche il mestiere di genitore diviene più difficile.

Ma ciò non deve indurre a colpevolizzazioni o senso di incapacità e sconfitta. Non occorre una laurea o una specializzazione per essere genitori. Occorre solo essere persone reali che intendono prendersi cura dei propri figli e, attraverso l’affetto, la comunicazione e l’ascolto, avere un sincero interesse alla loro educazione. Né è colpa dei genitori se i figli oggi vivono in un mondo che si trova nel pieno di un rivolgimento che non è solo socio-culturale, ma che potremmo definire senza esagerare antropologico. Sono gli stessi genitori ad essere immersi in quello stesso ambiente sociale e culturale nel quale sono immersi i figli. Perciò niente panico. L’importante è prendere posizione, avere idee, fare ragionamenti, assumersi la responsabilità di guidare ed indirizzare anche se questo può portare a conflitti. E soprattutto cercare di comprendere il punto di vista dei figli e il loro stato emotivo. Le probabilità maggiori di incidere sulla loro educazione si ha quando questi si sentono comunque compresi nei bisogni, desideri, pensieri ed emozioni, anche se si è su posizioni diverse o opposte. Viceversa quando si assume un atteggiamento di squalifica, denigrazione e irrigidimento difensivo, si va incontro alla possibilità che il dialogo e la connessione siano fortemente incrinate o interrotte, con un effetto di compromissione della qualità del rapporto che danneggia i figli innanzitutto.

Eppure oggi più che mai c’è bisogno della funzione educativa. Gli enti preposti, con pedagoghi e psicologi, si stanno affannando da decenni a cercare di adeguare la funzione educativa alle nuove sfide e al mutato ambiente culturale. E si trovano a dover competere con un vasto insieme di stimolazioni, esterne sia alla scuola che alla famiglia, capaci di avere enorme impatto. Se in passato era la cattiva compagnia a preoccupare il genitore, che poteva ricorrere a qualche mezzo per intervenire, oggi l’adolescente, ma anche il bambino, può essere esposto a qualunque genere di contenuto, attraverso influencer, video, social media, capaci di suggestionare e influenzare, sia direttamente che indirettamente per il tramite dei coetanei.

Per i genitori dunque la conoscenza del mondo dei loro figli è essenziale; per discutere, comprendere, prendere posizione, ragionare, indirizzare, vietare se necessario. Essere coerenti ed avere una idea, senza temere il giudizio dei figli. Avere una idea e difenderla con coerenza è sempre un buon esempio, anche se si può essere in disaccordo.

Nel sistema famiglia possono esserci numerose situazioni relazionali capaci di condurre ad esiti problematici. Il genitore attento coglierà i segnali e cercherà di porre rimedio oppure, se non vi riesce, richiederà un intervento di consultazione esterno. Qui di seguito riportiamo alcune osservazioni esemplificative di ordine generale al solo scopo di stimolare qualche riflessione su alcuni aspetti delle molteplici dinamiche che possono presentarsi all’interno del rapporto genitori-figli, senza alcuna pretesa di completezza. Ogni famiglia ed ogni caso specifico presenta infatti delle caratteristiche peculiari e delle sfumature differenti ed anche originali che sarà sempre necessario prendere in considerazione per risolvere gli eventuali problemi.

 

I FIGLI SONO INTELLIGENTI ANCHE QUANDO CRITICANO I GENITORI

Esibita quando si tratta di descrivere agli altri le eccellenti qualità dei propri figli, la loro intelligenza si dimentica troppo spesso quando da quegli stessi figli arrivano critiche al proprio comportamento.
Eppure quando un bambino o un adolescente fa delle affermazioni critiche o scomode circa il comportamento dei genitori, questi dovrebbero appuntarle con cura dentro un prezioso quaderno e avere il coraggio di rifletterci seriamente, caso mai avessero ragione. E spesso hanno ragione!
Se un adolescente accusa il padre di non pensarlo affatto e il padre ribatte stizzito e offeso che tutto quello che fa lo fa per il suo bene e per assicurargli un futuro, sentendosi per questo anche deluso per la palese irriconoscenza, lo stesso padre farebbe bene a considerare in maniera letterale quello che il figlio ha detto: che non si sente pensato! Il padre lavora tutto il giorno, e lo fa per il benessere di tutta la famiglia, per permettersi casa, auto, vacanze e pagare tutte le costose esigenze dei figli. Ma quanto pensa realmente a suo figlio? Quanto cioè il figlio è presente nei pensieri del padre? Quanto sa della sua giornata scolastica, delle sue amicizie, delle sue emozioni, dei suoi desideri? Quanto spesso immagina cosa stia facendo? Quanto spesso si chiede se sia triste o felice? O piuttosto il figlio scompare completamente dai suoi pensieri durante le lunghe giornate fuori casa? I figli adolescenti, ma anche i bambini, hanno la capacità di dire cose tremendamente vere e sagge, perché partono dal loro sentire più che dal ragionamento, qualità che spesso si perde da adulti, e possono fare osservazioni psicologiche di grande profondità, che devono essere prese in seria considerazione per poter valutare quale sia il vissuto dei propri figli e interrogarsi se sia necessaria qualche correzione.

 

LA QUALITA’ DEL TEMPO CON I FIGLI NON SOPPERISCE IN TUTTO ALLA QUANTITA’

Se si provasse a convincere un fidanzato o fidanzata, nei primi tempi della frequentazione, che la qualità del tempo speso insieme è più importante della quantità credo che non si riscuoterebbe molto successo. Piuttosto la risposta sarebbe che si richiede qualità e in più anche quantità. I legami richiedono del tempo speso insieme, anche per stare semplicemente insieme e basta. E il legame con i figli non fa eccezione.
In un periodo storico in cui il lavoro rischia di assorbire gran parte del tempo in luoghi lontani dalla propria famiglia, anche telefonate e messaggi possono far sentire la vicinanza e l’interessamento.
La sera o nei fine settimana vincere la stanchezza per dare tempo anche al legame con i figli è un dovere della propria funzione genitoriale. Se si investono energie nel rapporto con i figli si fa del bene a loro e si creano condizioni migliori per la relazione futura.

 

FORZARE LA CHIUSURA ALLA COMUNICAZIONE DI UN ADOLESCENTE NON E’ INVADENZA

Anzi, è un segnale che dimostra che siamo interessati a loro. Quando un adolescente o un giovane comunica poco con i familiari, assumendo un atteggiamento evasivo e chiudendosi nella sua stanza, non bisogna ritirarsi ritenendo in questo modo di rispettare la sua privacy e la sua libertà. E’ un segnale che si sta scavando un solco, una frattura nel rapporto che può portare dopo qualche anno a non sapere più come rapportarsi con lui o lei, perché almeno in parte non lo si conosce più. Ci si accorge della sua presenza dopo che emerge un problema, magari di ansia o di abbassamento dell’umore o di difficoltà nel rapporto con i pari. Il genitore è colui che può fornire un aiuto prima che si evidenzino problemi, attraverso la comunicazione, l’ascolto aperto e il sincero interessamento. I genitori riferiscono spesso che in realtà provano a comunicare con i figli ma senza successo, non considerando però quanto incisivi o persistenti e pazienti siano stati questi tentativi. Abbandonare il campo troppo rapidamente equivale a non aver fatto nessun tentativo. Bisogna insistere, forzare, parlare, fare discorsi, mostrarsi interessati e non arrendersi se si ricevono risposte brusche. Genitori e figli non sono sullo stesso piano, non è un rapporto tra pari; al genitore spetta la responsabilità di provare a cambiare il rapporto.

 

EVITARE LO SCONTRO DIRETTO CON PAROLE FORTI ED OFFENSIVE

Le parole sono come pallottole, diceva il filosofo Wittgenstein. A nulla vale il fatto che non si arriva mai alle mani. Parole offensive e denigratorie hanno un effetto devastante sul rapporto; i loro significati sedimentano in fondo all’anima minando l’autostima. Liti feroci e sistematiche fra madri e figlie o fra padri e figli in cui ognuno rivendica le sue ragioni screditando ed offendendo l’altro sono dei vicoli ciechi dai quali non si esce. “Non mi meritavo una figlia così”, “Non capisci niente”, “Papà non voglio essere un fallito come te”, “Sei un imbecille”, aggiungendo anche un contorno di parole volgari, non sono altro che l’espressione di rabbia che si riveste di violenza, dove decade ogni possibilità di dialogo. Anche in questi casi è il genitore che ha la responsabilità di non farsi trascinare in questa escalation dove si cerca la parola più forte per vincere, offendere e mettere a tacere l’altro. E’ una lotta che non ha né vincitori e né vinti, uno sfogo di frustrazione e violenza che può solo mantenersi tale o peggiorare. Si possono esprimere gli stessi concetti con parole diverse ed evitando di offendere il valore dell’altro come persona, e magari parlare dell’accaduto quando gli animi si sono calmati, cercando di ascoltare le ragioni dell’altro, spiegando che ci si dispiace per le parole utilizzate. Il disarmo unilaterale è ciò che deve essere tentato in questi casi, abbassare la spada per attendere che l’abbassi anche l’altro.

 

EVITARE L’ECCESSO DI CONSIGLI ANCHE SE SI HA SEMPRE RAGIONE

Può capitare che la madre o il padre di un adolescente pensino di avere sempre ragione, perché sono intelligenti e attenti, e che siano tentati di intervenire in ogni momento per correggere il comportamento del figlio; per dargli, secondo la loro opinione, sempre i migliori consigli e la migliore educazione. “Stai con la schiena diritta”, “Non mangiare troppo”, “Cambiati questa maglietta che non ti sta bene”, “Aggiustati i capelli”, “Avresti dovuto rispondere così alla tua amica”, “Basta studiare adesso, esci con gli amici”, richiedere resoconti dettagliati della giornata scolastica o di svago per intervenire prontamente e sistematicamente a dispensare consigli e indicazioni su come sarebbe stato giusto comportarsi. Si ha difficoltà ad apprezzare, a dire: bravo! Hai fatto bene! Ottimo! O anche semplicemente ad ascoltare senza commentare e correggere. Anche se i consigli dispensati sono tutti oggettivamente giusti ed elargiti per il suo bene, l’effetto che si produce è, per l’adolescente, la spiacevole sensazione che egli sia completamente sbagliato ed incapace di individuare da solo la cosa giusta. E’ come se il genitore avesse l’ansia di dimostrare di saperne sempre più del figlio in ogni ambito, ponendosi come il suo infallibile coach.
Ne può conseguire sia una dipendenza eccessiva dal parere del genitore, che ostacola il processo di indipendenza del figlio, sia un sentimento sotterraneo di risentimento e frustrazione che potrebbe esplodere improvvisamente in un sintomo clinico o in una aperta e sconcertante ribellione.
E’ vero che il genitore in questo caso tiene molto al benessere del figlio, ma non rispetta la sua individualità e non gli permette di crescere autonomamente mediante un proprio percorso di tentativi ed errori e in accordo con il suo personale stile caratteriale. Il genitore cerca di produrre un clone o anche un figlio perfetto che compensi le mancanze del genitore stesso.

 

I GENITORI NON SONO GLI AMICI DEI FIGLI

Dovrebbe essere scontato ma non lo è. In una società in cui uno dei valori sembra essere diventato quello di restare eternamente giovani, molti genitori vivono con disagio il fatto di incarnare il ruolo di persona più responsabile e matura, dal momento che questo li farebbe sentire più lontani dalla giovinezza. E allora i selfie ritoccati dove non si capisce chi è la madre e chi la figlia mentre vanno insieme a fare shopping o le ore passate a giocare con i figli alla playstation non sono negativi di per sé a patto che non tradiscano il bisogno del genitore di sentirsi uguale al figlio. Ai figli fa piacere avere genitori giovani, ma ciò non deve rappresentare un tentativo di annullare le differenze di ruolo e di età, e dovrebbe correttamente rientrare nell’ambito di un gioco all’interno di un rapporto dove resta chiaro il ruolo di responsabilità e guida del genitore.
Anche accondiscendere ad ogni trasgressione dei figli va nella stessa direzione. Per assecondare il bisogno di sentirsi moderni e “smart” si impedisce al figlio di vivere la sua esperienza nella corretta dimensione di esperienza trasgressiva, privandolo di riferimenti su ciò che può essere giusto o sbagliato o pericoloso. Talvolta si osserva in queste situazioni una iper-responsabilizzazione dei figli che, in mancanza di riferimenti adeguati, si sentono costretti a diventare genitori di sé stessi.

 

I FIGLI NON SONO IL SOSTEGNO EMOTIVO DEI GENITORI

Nelle separazioni, ma anche semplicemente nei conflitti coniugali, una figlia o un figlio può diventare la spalla su cui il genitore si appoggia, riferendo dei propri malumori, della propria infelicità e del risentimento nei confronti del partner, richiedendo da questi comprensione, sostegno e appoggio morale. Il figlio si trova in una posizione estremamente scomoda nel dilemma se sostenere il genitore che chiede aiuto oppure difendere l’altro genitore. In ogni caso si trova a dover assumere il ruolo di persona responsabile che tenta di rimediare e attenuare i conflitti, assumendo su di sé le ansie e le angoscia dell’altro. I ruoli sono invertiti e in queste condizioni i figli si trovano nella impossibilità di poter loro stessi chiedere aiuto per difficoltà proprie o anche per la sofferenza che quegli stessi conflitti coniugali gli stanno causando, perché sentono di non poter gravare ulteriormente sulla situazione emotiva già compromessa dei genitori. Dovranno cavarsela da soli nelle loro difficoltà, oltre al peso di dover sostenere anche uno dei genitori o entrambi dibattendosi ogni volta tra difficili scelte diplomatiche per non scontentare nessuno. In queste situazioni i genitori dovrebbero essere attenti a valutare che il fatto che un figlio appaia particolarmente sensibile, responsabile e intelligente non significa che non abbia egli stesso bisogno di aiuto o comprensione, e che se apparentemente non mostra disagio o sofferenza non è perché questa non ci sia, ma perché molto probabilmente la nasconde.

 

ESPRIMERE PAROLE DI STIMA IN MODO SINCERO E DIRETTO

Così come le parole che esprimono giudizi negativi hanno grande impatto sui figli, allo stesso modo le parole buone sono capaci di curare, infondere fiducia in sé stessi e nutrire la relazione. Una figlia viene a sapere che il padre fuori dalla famiglia parla molto bene di lei e dei suoi successi, ma lamenta di non ricordare di aver mai ricevuto da lui parole di apprezzamento e di stima nei suoi confronti. In famiglia tutto sembrava essere scontato: il suo curriculum scolastico, la sua educazione, l’ottimo parere degli insegnanti, la sua intelligenza e maturità, nel mentre lei stessa non era sostanzialmente in grado di apprezzarsi nel modo corretto e di stimarsi adeguatamente. Continuava a sentirsi da meno degli altri e a guardare ansiosamente soltanto i propri difetti invece che i punti di forza, non sentendosi mai all’altezza. Può capitare che per tutta la vita si continui ad attendere e ricercare quella conferma e quella attestazione che non si è ricevuta da adolescenti, nonostante gli attestati veri che pendono dai muri.

 

ESSERE REALISTICI: NON DENIGRARE MA NEPPURE ECCEDERE IN LODI INFONDATE E ASPETTATIVE

Riconoscere i successi, accogliere gli errori, incoraggiare, far vedere le cose anche da altri punti di vista, dare fiducia nelle proprie possibilità, ma non stravolgere la realtà dei fatti, perché i figli se ne accorgono e perdono fiducia nel giudizio dei genitori, oppure tentano di adeguarsi alle aspettative irrealistiche che gli trasmettono i genitori, caricandosi di ansia verso il raggiungimento delle performance attese, che ne ostacola la realizzazione anziché favorirla.
Se un figlio non è portato per la matematica, meglio non fargli credere che sia un genio comunque e che basta che si impegni per poter raggiungere qualsiasi risultato. Le attitudini, capacità ed inclinazioni sono diverse per ognuno; riconoscere i punti di forza e di debolezza è il modo migliore per favorire nel giovane una immagine adeguata di sé stesso che lo aiuterà certamente a nutrire la sua autostima. Il giovane dovrà sentirsi amato ed accolto dai genitori a prescindere dai risultati che saprà o potrà raggiungere e sentirsi rispecchiato per quello che è, non per la corrispondenza alla immagine idealizzata che ne hanno i genitori. Non è raro ascoltare un giovane rappresentare di essersi sentito amato e stimato solo a condizione di saper raggiungere certi risultati, ad esempio scolastici. I genitori negheranno e diranno che ovviamente non lo hanno mai richiesto esplicitamente, ma nei fatti questo è ciò che percepiva il figlio.

 

EVITARE DI OFFRIRE AIUTI ECCESSIVI

Essere solerti nell’offrire aiuto e supporto è certamente manifestazione di affetto e interessamento verso i propri figli, ma quando l’offerta o anche l’insistenza di dare aiuto arriva regolarmente prima di essere richiesto, o quando oggettivamente non è necessario, ciò che indirettamente si comunica al figlio è che egli da solo non è in grado di fare ciò che invece potrebbe e dovrebbe imparare a fare.
I bambini e i ragazzi sperimentano, scoprono, risolvono problemi e per ogni piccolo o grande obiettivo raggiunto con le proprie forze alimentano il sento di auto-efficacia e la loro autostima. Ottenere un risultato attraverso le proprie capacità e il proprio impegno aiuta a conoscersi, allena la volontà e aumenta la tolleranza alla frustrazione rafforzando il carattere.
In ambito scolastico ad esempio è bene lasciare che svolgano i compiti da soli evitando di stargli vicino tutto il tempo e limitarsi se occorre ad una funzione di verifica. Ma questo stesso atteggiamento si può riscontrare in altri ambiti anche quando i figli sono più grandi. La tendenza di alcuni ad essere genitori “spazzaneve” che intendono spianare ogni difficoltà ai figli non permette alle loro qualità e capacità di emergere e ostacola la percezione realistica delle difficoltà della vita a cui devono imparare a far fronte.

 

NON TUTTE LE DIFFICOLTA’ DIPENDONO DAL COMPORTAMENTO DEI GENITORI MA QUESTI POSSONO CONTRIBUIRE A NON AGGRAVARE LA SITUAZIONE

I figli possono presentare problemi non solo come effetto diretto del comportamento dei genitori e del clima familiare, ma anche come conseguenza del modo in cui, sulla base di caratteristiche del tutto soggettive, hanno interpretato o vissuto gli eventi e le relazioni all’interno della famiglia. I genitori possono accorgersene in tempo e provare a porre rimedio, ma quando ciò non sortisce gli effetti sperati, meglio richiedere una consultazione specialistica prima che la situazione degeneri in circoli viziosi che potrebbero essere ingenerati proprio dai tentativi messi in atto per arrivare ad una soluzione.
Cercare di costringere a studiare un ragazzo svogliato, sottoporre a continue diete una ragazza sovrappeso, chiamare ansiosamente per controllare le uscite serali, spingere eccessivamente verso attività sociali una ragazza con problemi di timidezza, cercare di vincere con la forza le battaglie con un ragazzo oppositivo, arrabbiarsi dinanzi a comportamenti evitanti e rigidi dovuti a problemi fobici o ansiosi, sono tutti tentativi di soluzione che se non sortiscono effetti positivi in tempi brevi sono destinati purtroppo ad aggravare proprio i problemi che intendono risolvere.

Dubbio patologico

Il processo mentale del dubitare fa parte della vita di ognuno di noi. Quando ci si presenta un bivio o un crocevia relativo a importanti scelte è sano e utile dubitare e farsi domande. Così come è sano mettere in discussione talvolta anche le scelte già effettuate, per poter decidere di cambiare strada.

Le domande e i dubbi possono riguardare scelte concrete, ma anche aspetti della propria personalità, atteggiamenti, sentimenti ed emozioni, per arrivare ad una comprensione maggiore di noi stessi e degli altri.

Quando si deve operare una scelta o ci si deve formare una opinione, si utilizzano informazioni, nonché risorse mentali ed emotive, per prendere una decisione, arrivare ad una conclusione ed andare avanti.

Il dubbio che diventa patologico.

Quando però non si riesce a venirne a capo in un tempo ragionevole e non si riesce a prendere una decisione o a dare una risposta ad una domanda che ci assilla su noi stessi, sugli altri o sul mondo, quando il pensare all’argomento ed il cercare la risposta diventa onnipresente e ci fa vivere in costante angoscia, siamo in presenza di un dubbio patologico.

Alcune domande si insinuano e si stabilizzano nella mente come un virus, che finisce per assorbire la maggior parte delle risorse mentali di un individuo, conducendo ad uno stato di angoscia costante con picchi di ansia elevata.

Il soggetto cerca con infinite e sottili argomentazioni di trovare la risposta alla domanda che lo assilla; e non appena ha trovato una risposta, subito nella sua mente una argomentazione contraria è pronta a confutare la conclusione appena raggiunta, in un circolo vizioso senza fine fra contrapposte argomentazioni che si inseguono e si scontrano incessantemente.

Le domande che più di tutte possono sfociare in dubbio ossessivo sono quelle le cui risposte appaiono più fortemente connesse a implicazioni decisive per il proprio futuro e la propria identità.
Una scelta professionale, un rapporto sentimentale, l’identità sessuale, per citare le più frequenti, ma ve ne sono anche altre che appaiono più stravaganti ed originali.

L’emozione che accomuna tutte le domande e i dubbi conseguenti è la paura. Paura di fare la scelta sbagliata, paura di non essere psicologicamente sani, paura di aver commesso qualche fondamentale errore nel passato, tutte condizioni che, nella percezione che ne ha il soggetto, possono influenzare irrimediabilmente tutta la vita e la possibilità di felicità presente e futura.

Alcune delle domande che sfociano in dubbio patologico si presentano come domande sane e legittime su sé stessi, sulle relazioni e sul mondo. Esempi di tali domande sono: “Devo continuare a studiare giurisprudenza oppure cambiare facoltà? – Sono veramente innamorata del mio fidanzato? – La mia ragazza mi piace veramente oppure no?- La mia scelta lavorativa è stata quella giusta per me o dovrei cambiare? – Quello che faccio è frutto di quello che voglio o è il risultato di pressioni dalle quali non riesco a svincolarmi?”.
Queste sono infatti domande che legittimamente potrebbero essere poste come punto di partenza per una ipotesi di cambiamento, che faccia muovere da una situazione di insoddisfazione ad una situazione di maggiore benessere.

Il dubbio patologico divora la mente.

Quando prendono la forma di dubbio patologico, tali domande finiscono per assumere un peso ed un significato sproporzionato, come se l’intera vita e felicità del soggetto dipendessero totalmente ed irrimediabilmente dalla soluzione del quesito. Le attività della vita quotidiana, il tono dell’umore e la qualità delle relazioni finiscono per essere costantemente condizionate dall’angoscia della riflessione sul dubbio irrisolto.

Oltre a domande razionali e logiche, ci possono essere anche dubbi e domande che appaiono fin dall’inizio più fantasiose e viziose.
Esempi di queste domande potrebbero essere: “Forse sono omosessuale? – Forse potrei suicidarmi? – Un giorno potrei diventare drogato? – E se avessi venduto l’anima al diavolo quella volta che lo pensai?”
Tali domande sono fondamentalmente insensate perché una breve analisi fa emergere, nel caso degli esempi sopra citati, che il soggetto non si sente omosessuale, non intende suicidarsi, non ha motivi né vuole diventare tossicodipendente e non desidera, né crede sia razionalmente possibile, vendere l’anima al diavolo.
Questo vuol dire, che sul piano delle intenzioni e del sentire immediato del soggetto, le domande sono stupide ed insensate, mentre il piano sul quale la domanda e il dubbio sembrano avere senso è il piano razionale, quello cioè del ragionamento astratto e della pura ipotesi concettuale. Cominciano così una serie di ragionamenti logici per cercare di arrivare ad una certezza, ad una conclusione razionale e definitiva che ci rassicuri sul fatto che non sussiste, non si è verificato o non potrà verificarsi l’evento tanto temuto.

Tale processo però è destinato a non avere fine, perché per ogni ragionamento che sembra condurre ad una definitiva rassicurazione, una nuova obiezione è pronta ad insinuarsi nella mente, per confutare le precedenti conclusioni.
Nel dubbio patologico il ragionamento non aiuta a trovare la soluzione, quanto piuttosto, la allontana sempre di più. A volte si comincia a parlarne anche con altri, in estenuanti tentativi di cercare insieme di venire a capo del dilemma, ma questo non fa che peggiorare la situazione. Il dubbio comincia ad invadere la mente. Cresce come un cancro, che via via invade la coscienza e che si nutre sostanzialmente di tutte le risposte che gli vengono offerte; come un dio cattivissimo e insaziabile il dubbio divora tutte le risposte opponendo mille argomentazioni e richiedendo sempre più prove e verifiche, spingendo il soggetto alla disperazione.

Un esempio: il dubbio di essere omosessuale.

La domanda può essere magari sorta in un ragazzo che ha formulato improvvisamente un apprezzamento positivo nei confronti delle fattezze fisiche o del carattere di un coetaneo. Di qui l’improvviso dubbio: “Come mai penso a queste cose? Sono forse omosessuale?”. Quindi un improvviso sussulto, uno spavento: “E se fosse così?”. Da quel momento comincia una riflessione, per cercare di scacciare la probabilità anche remota che ciò possa essere vero. Si comincia a ragionare e si cercano conferme al fatto che mai si sono fatti pensieri del genere, che da sempre si è stati attratti dalle ragazze, che le prime esperienze sono state fatte con il sesso opposto e sono risultate piacevoli, etc. Ma allora però: “Perché mai mi è venuto il pensiero? Può un pensiero del genere venire ad una persona che non è omosessuale né può mai diventarlo?” Insomma, comincia tutta una serie di ragionamenti, per risolvere sul piano teorico quello che diventa un dilemma sempre più angoscioso. Si passa al setaccio la propria vita passata, si valutano tutti i segni e le indicazioni, si legge su internet. Si comincia una ricerca che può sconfinare anche in una ricerca “scientifica” sul campo. Si può ad esempio cominciare ad osservare i ragazzi per vedere cosa si prova, o immaginare di compiere degli atti sessuali, per valutarne gli effetti. Può anche accadere che si cominci a controllare il proprio comportamento e i propri spontanei movimenti corporei, nel timore che questi potrebbero tradire la terribile “verità” agli occhi degli altri.

In questo modo, ciò che semplicemente dovrebbe essere sentito come vero in base a desideri, emozioni e sentimenti, viene ingabbiato in una ricerca di prove, ragionamenti e riflessioni, con il risultato che l’evidenza della risposta si allontana sempre di più, perché l’immediatezza del sentire viene seppellita sotto la montagna di prove, ragionamenti e riflessioni. Le giornate si riempiono di angoscia con picchi di panico e, più il dubbio non riesce ad essere sciolto con i ragionamenti, più si tenta di utilizzare ancor di più ciò che già non funziona, e cioè ulteriori ragionamenti, prove e rassicurazioni. Fino al punto che, anche quando occasionalmente capita di sentirsi più liberi e distratti, improvvisamente ci si “ricorda” di avere il “problema”, il dubbio amletico non sciolto, la spada che pende sul capo; e si ripiomba nell’oscurità e nell’angoscia.

Trovare smettendo di cercare.

Ciò di cui non ci si rende conto è che il problema non è rappresentato dal contenuto del dubbio e quindi dalla risposta alla domanda. Il problema giace tutto intero nell’attività della costante ricerca della risposta.
Qui, come in tutti i casi analoghi, la soluzione non è riflettere e ragionare di più, ma all’opposto smettere di pensare e ragionare sul problema. La risposta al dubbio, nella sua forma patologica, non si trova nei complessi ragionamenti, ma appare al contrario proprio quando si smette la ricerca della risposta stessa.
E’ come muovere continuamente l’acqua per cercare un anello caduto sul fondo di uno stagno; più si agita l’acqua e più la sabbia dal fondo sale in superficie impedendoci la vista. Solo fermandoci e attendendo che la sabbia si depositi, apparirà l’anello ben chiaro sul fondo. Si trova smettendo di cercare.

Nel trattamento del dubbio patologico, l’errore terapeutico più comune è quello di cercare di aiutare il paziente a compiere la scelta che egli non sa compiere, fare dei ragionamenti più sensati dei suoi, che dimostrino l’infondatezza del dubbio e ne indichino la risposta. Per questa via però non ci sono speranze, perché egli è un esperto in questo tipo di ragionamenti, e offrirgli pur nuove argomentazioni non fa altro che alimentare la tendenza a ragionare ancora di più.

Per sradicare la convinzione del paziente circa la necessità di risolvere il dubbio con il ragionamento e le prove, occorre condurlo attraverso stratagemmi terapeutici a smettere di ragionare, per permettergli di accedere alla esperienza emozionale correttiva della maggiore serenità che gli si presenta allorquando smette di rimuginare.

Nel trattamento del dubbio patologico bisogna condurre il soggetto, attraverso specifiche prescrizioni, ad interrompere l’incessante pensare, poiché è questo in realtà il vero motivo della sofferenza e del disagio che egli manifesta. La sua tentata soluzione di scogliere il dubbio attraverso il ragionamento è stata la trappola nella quale si è infilato e che è diventata di fatto la sua prigione ed il labirinto dal quale non riesce più ad uscire.
Gli si indurrà quindi suggestivamente il timore di rispondere alle domande su quel tale argomento, oppure gli si prescriverà di scrivere il flusso dei ragionamenti nel corso della giornata secondo uno schema di modi e tempi, per ostacolare l’automatismo anarchico del suo continuo rimuginare. In questo modo si sperimenta una diminuzione dell’angoscia e il dubbio finisce gradatamente per perdere di importanza.

Un dubbio, per quanto essa possa avere all’inizio l’apparenza di una domanda sensata, diventa patologico quando se ne ingigantisce a dismisura il peso e l’importanza, fino a che il problema non è più quello iniziale, ma diventa il fatto che la persona è oppressa ed invasa dall’angoscia del continuo rimuginare.
Le domande appaiono come ami calati davanti al soggetto, a cui egli abbocca continuamente con i suoi tentativi di risposta. Più si offrono risposte e più altri ami a cui abboccare appariranno, in un processo senza fine. Solo smettendo di abboccare continuamente alle insidiose domande, il processo patologico si può interrompere, ristabilendo la serenità mentale.

Ed allora la propria identità sessuale sarà chiara senza bisogno di pensarci; si accetterà che se si sceglie una facoltà, si deve necessariamente lasciarne un’altra; che anche se una certa caratteristica fisica o psicologica di un partner non è meravigliosa per noi, non siamo disposti a perdere tutto il resto che ci piace tanto; che nella vita non ci è dato di sapere se imprevedibili circostanze future ci faranno trovare in situazioni che mai ci saremmo immaginati, etc.
Semplicemente, si riprende a vivere, lontani da quella ricerca di perfezione, controllo e certezza assoluta che caratterizza la forma del pensiero ossessivo in tutte le sue varianti.